Finalmente l’Europa ha di che rallegrarsi. Gli europei, ha detto il ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel, «non possono capitolare alle richieste americane» sul Ttip.

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti è praticamente fallito. Se ne riparlerà (forse) dopo le elezioni americane, dopo quelle francesi e tedesche del 2017, dopo Brexit. Intanto l’Europa si gode la (magra) soddisfazione di una vittoria di principio.

Al termine dell’estate degli attentati, delle ansie immigratorie, del gran rifiuto britannico, dell’economia stagnante, arriva l’impennata d’orgoglio e di fermezza del vecchio e bistrattato continente. Sapere che non cediamo agli americani ci solleverà il morale. Poco importano le conseguenze, compreso lo stimolo alla crescita che ci si attendeva dall’accordo di libero scambio - stimolo di cui l’Europa ha più bisogno che non gli Stati Uniti.

L’Ue non è nota per rigore negoziale. Normalmente a Bruxelles di rigore c’è solo il compromesso: a tutto si trova una via d’uscita. Basta pensare ai caroselli delle nomine dei Commissari. I colloqui sulla liberalizzazione commerciale transatlantica con gli americani sono evidentemente l’eccezione al Dna comunitario. Il Ttip diventa quasi vittima collaterale di quest’improvvisa fermezza. L’importante, secondo Gabriel, era «non soccombere» alle richieste Usa; tanto peggio se così facendo si pone la pietra tombale sul Ttip.

Se un negoziato fallisce, la responsabilità non può essere mai di una sola parte. Del fallimento del Ttip non può essere fatto carico solo agli europei. Nella stretta finale, alle prese con i toni protezionisti della campagna presidenziale, Washington può avere alzato l’asticella con richieste effettivamente inaccettabili. Gli europei avranno certamente i loro motivi per gettare la spugna. Resta il fatto che sono loro, non gli americani, i principali perdenti. La fermezza scivola in autolesionismo.

L’Europa perde infatti un treno importante nella corsa per rimanere baricentro di commercio e investimenti. Mentre la creazione di un’autentica zona atlantica di libero scambio è rinviata sine die, l’accordo per il Partenariato Trans-Pacifico (Tpp) è stato firmato un anno fa. Deve ancora superare gli ostacoli delle ratifiche e incontra la tiepidezza di Hillary Clinton, nonché l’ostilità di Donald Trump, ma è una realtà. Tutto fa pensare che, dopo qualche rinegoziazione e qualche aggiustamento più o meno cosmetico, una futura amministrazione Clinton lo sosterrà e i senatori repubblicani, più un numero sufficiente di democratici, voteranno a favore. Nella lunga partita del XXI secolo fra Asia ed Europa su commercio, investimenti, innovazione e crescita, il Pacifico ha segnato il 2-0 con un autogol atlantico.

Ancora più importante è il treno perso della standardizzazione. L’ambizione del Ttip andava ben oltre la liberalizzazione commerciale. L’obiettivo ultimo era di adottare norme e criteri regolamentari comuni sulle due sponde dell’Atlantico. Per esempio (si potrebbero moltiplicare), il Ttip avrebbe adottato gradualmente standard equivalenti per gli autoveicoli, alleggerendo l’industria automobilistica del peso di specifiche diverse per la produzione destinata al mercato americano e a quello europeo. La differenza è trascurabile (è un mistero cosa renda le cinture di sicurezza europee più o meno sicure di quelle americane) ma comporta costi di produzione e distribuzione non irrilevanti.

Gli standard comuni o equivalenti sarebbero stati realizzati progressivamente, ma concordati adesso. Era quello che contava. In un quadro di crescente competitività mondiale e di economie aggressive ed emergenti, non solo in Asia e nel Pacifico (ci sono l’America Latina, l’Africa, la Russia), il tempismo della standardizzazione è cruciale. Oggi un accordo fra Europa e Stati Uniti sarebbe stato ancora in grado di dettar legge; sarebbero gli altri ad uniformarvisi.

Domani la partita della standardizzazione sarà molto più multipolare. Gli Stati Uniti giocano su due sponde. L’Europa solo quella atlantica. Il rischio è che alla fine siano proprio gli europei a doversi uniformare a regole dettate da altri. Pagherebbero così un alto prezzo per aver gettato a mare il Ttip per non «soccombere alle richieste americane». Quelle cinesi o brasiliane potrebbero essere ben più esose.