Siamo abituati ad aspettarci poco dai vertici Ue. Dopo lunghe nottate, i leader si lasciano con l’amaro in bocca di compromessi e rinvii. Ieri hanno però un’importante attenuante. Per attraversare quello che Tusk ha chiamato un «campo minato» del 2017 serve un sentiero di sopravvivenza. Ne hanno tracciato il percorso.

Il vertice aveva sul tavolo cinque temi: immigrazione; Siria; difesa europea; accordo di associazione con l’Ucraina, rigettato del referendum olandese; Brexit.

La testimonianza del sindaco di Aleppo Est, Brita Hagi Hasan, è stata un bagliore d’attenzione europea alla tragedia siriana. Pur assente sul terreno, l’Ue ha trovato il coraggio di chiedere «al regime e alla Russia» tutte le misure necessarie per l’evacuazione dei civili e la loro assistenza umanitaria.

La difesa europea è sulla pista tracciata da Federica Mogherini, compreso il legame con la Nato sulla base della dichiarazione congiunta di Varsavia. Se i bilanci della difesa daranno una mano, può diventare una componente minoritaria ma critica della sicurezza europea – e rispondere alle prevedibili pressioni americane a fare di più. Il compromesso che consente all’Olanda di non bloccare l’accordo di associazione Ue-Ucraina salva acrobaticamente capra e cavoli, ma è importante per la credibilità dell’Unione e per il sostegno a Kiev.

Il messaggio dei 27 a Londra su Brexit è semplice: «Siamo uniti e pronti a negoziare». La palla è nel campo britannico. In realtà l’unione è soprattutto procedurale con un faticoso compromesso fra Commissione (che negozia), Consiglio e Stati membri (che sorvegliano) e Parlamento (che è tenuto informato). La Commissione è brava a negoziare ma ci si può domandare se sia all’altezza della responsabilità politica. Brexit è troppo importante per essere lasciata a Juncker e Barnier. Ma questa è tattica pre-derby; i ruoli si definiranno in partita.

Sull’immigrazione, tema prioritario per l’Italia, partivamo sulla difensiva. Abbiamo parato un colpo. Lo scabroso nodo passa a una presidenza maltese, nella quale l’Italia trova molte affinità di approccio. Resta però la minaccia della «solidarietà flessibile» delineata dalla presidenza slovacca, con la quale i Paesi che non vogliono accogliere rifugiati se la sarebbero cavata con contropartite economiche o logistiche, senza prendere immigrati. Il neo-presidente del Consiglio era al debutto e non ha fatto pesare su Bruxelles una crisi di governo che aveva messo in ansia molte cancellerie. I nostri partner hanno apprezzato.

Ieri l’Ue ha però dato una risposta tattica, non strategica. Sarebbe bastata in tempi normali, non in una fase in cui tutti gli assetti, dentro e fuori Ue, vengono messi in discussione. Il 2016 è stato un anno di rottura internazionale. Il vertice si affacciava su un nuovo mondo: il mondo della presidenza Trump, di Brexit, della spietata legge del più forte in Siria. L’Ue esce da un anno disastroso in cui ha perso un grosso pezzo, ha visto leader mietuti alle urne (Cameron, Renzi e, presto, Hollande – per rinuncia), non ha risolto la crisi immigratoria ed ha brillato per assenza in Siria e in Libia. Manca, specie da parte delle Istituzioni europee, qualsiasi esame di coscienza e di autocritica, necessari per imparare la lezione.

L’Ue tira avanti: questo il messaggio del vertice. Chiuso il 2016, rimane a galla nelle acque tempestose del 2017, quando da Washington soffierà un nuovo vento e quattro elezioni (Olanda, Francia, Germania, Italia) ne faranno una corsa ad ostacoli. La sopravvivenza è una virtù. Speriamo che basti perché oggi più che mai abbiamo bisogno d’Europa.