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La visione confusa del futuro dell’Europa

di Sergio Fabbrini

(Reuters)

5' di lettura

Il Libro Bianco sul futuro dell’Europa, presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker al Parlamento europeo mercoledì scorso, fornisce un contributo modesto e confuso alla discussione che dovrebbe condurre alla Dichiarazione di Roma del prossimo 25 marzo. Modesto, perché non vi è alcuna seria riflessione sulle cause della crisi europea, crisi che ha addirittura condotto alla secessione di un grande Paese (il Regno Unito) dall’Unione europea (Ue). Confuso, perché si delineano (addirittura) cinque scenari per il futuro dell’Ue che sembrano emersi da un seminario universitario, più che da un riflessione politica. Quel Libro Bianco dice più cose sulla crisi in cui versa la Commissione che sulla crisi in cui si trova l’Ue.

Nonostante la Commissione Juncker continui ad essere interpretata come il governo parlamentare dell’Ue, essa é divenuta in realtà un ibrido istituzionale. Cioè un organismo qualche volta parlamentare, spesso intergovernativo e sempre tecnocratico. Una natura ibrida che è causa della sua confusione. Tant’è che oggi, contrariamente al passato, le proposte più chiare sul futuro dell’Ue provengono dal governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, da alcuni leader del Parlamento europeo (come Mercedes Bresso, Elmar Brok, Guy Verhofstadt), da alcuni capi di governo nazionali e addirittura dallo stesso presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Per questo motivo, è bene che l’Italia esca dal suo incantesimo per la Commissione, facendo sentire la propria voce (già a partire dalla riunione parigina di domani tra i leader dei quattro grandi Paesi dell’Eurozona) per orientare la discussione in una direzione meno confusa.

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Il Libro Bianco della Commissione è confuso perché è senza un’anima politica. Discute del futuro dell’Ue come se quest’ultima fosse un’organizzazione internazionale. Il suo approccio è ispirato dal funzionalismo utilizzato da David Mitrany (uno studioso romeno che ha vissuto tra il 1888 e il 1975) per concettualizzare lo sviluppo di cooperazioni tra organizzazioni sul piano internazionale.

Nel Libro Bianco si sostiene, infatti, che «la forma seguirà la funzione». Un’affermazione incomprensibile nel caso dell’Ue. Se quest’ultima è e vuole essere un’organizzazione democratica, allora la forma delle sue istituzioni non potrà essere la conseguenze delle funzioni che assolve. Le sue istituzioni, infatti, debbono garantire la partecipazione dei cittadini alle decisioni sulle politiche (o ‘funzioni') che li riguardano. A meno che non si considerino i cittadini solamente nella loro veste di consumatori. Come può la Commissione, che dovrebbe promuovere la politica europea, trascurare il problema della legittimazione delle politiche europee? Priva di un senso della democrazia, è inevitabile che gli scenari da essa delineati risultino poi incomprensibili.

Consideriamoli, cominciando dai due scenari estremi, quello di “andare avanti giorno per giorno” e quello di “fare molto di più insieme”. Come si fa ad ipotizzare la politica del “business as usual” quando l’Ue, di fronte ai cambiamenti interni ed esterni, dovrà prendere decisioni che incideranno addirittura sul suo assetto istituzionale? Basti pensare che si stanno aprendo le negoziazioni con il Regno Unito, negoziazioni che obbligheranno a rivedere la distribuzione dei seggi al Parlamento europeo tra i vari stati membri oppure a ridefinire i contributi nazionali al finanziamento del bilancio comunitario. Nello stesso tempo, di fronte alla rinascita dei nazionalismi, è sorprendente che venga riproposta l’idea che si debba fare tutto insieme ovvero (testuale) che «la cooperazione tra gli stati membri debba andare molto più avanti in tutti gli ambiti». Si noti, si parla di «tutti gli ambiti», come se l’integrazione fosse finalizzata a costruire uno stato europeo in sostituzione degli stati nazionali. Un’ideologia che fornisce alibi ai suoi avversari. Tra questi due scenari estremi, la Commissione individua altri tre scenari, anch’essi poco giustificabili. Uno è quello di “ritornare al mercato unico”, cancellando di colpo ciò che è avvenuto dopo Maastricht (come la formazione di un’Eurozona, di una Banca centrale europea, di una politica comune nella sicurezza e negli affari esteri). Sarà mai possibile? Non pare proprio. L’altro è quello di concedere “a chi vuole di più di fare di più” (dando vita a coalizioni tra paesi volenterosi per perseguire specifici programmi). Ma quali sono le conseguenze di tali molteplici collaborazioni differenziate sul piano della legittimazione democratica? Non se ne parla. L’altro infine è quello “di fare di meno ma con più efficienza”, come se quest’ultima fosse inversamente proporzionale al numero di cose che si fanno. Che strana idea. Insomma, gli scenari proposti dalla Commissione sembrano essere un’insalata russa. Non c’é un quadro di riferimento né un’idea delle priorità da seguire. Se la Commissione fosse davvero un governo parlamentare, allora staremo freschi.

La confusione della Commissione è dovuta alla doppia gabbia mentale che la tiene prigioniera (ma non solo lei). La prima gabbia è costituita dall’intoccabilità del principio dell’Unione a 27. Siccome questo principio è irrealistico, la sua difesa irrigidisce il funzionamento dell’Ue. Tale irrigidimento finisce per giustificare le pressioni a differenziare le politiche, dando vita all’Europa per progetti. Più l’Ue si differenzia nei progetti, più si sgretola il quadro comune, rendendo impossibile, ai cittadini, di capire chi fa che cosa.

Poiché, però, le politiche differenziate incidono sulla vita dei cittadini, è inevitabile che l’insoddisfazione di questi ultimi verso gli esiti di quelle politiche si scarichi a livello nazionale, non avendo una possibilità di entrata nel processo decisionale europeo. Così, la gabbia dell’Unione a 27 finisce per lavorare a favore del sovranismo nazionalista, con i sui effetti disintegrativi. Complimenti. Per neutralizzare quegli effetti, invece, occorrerebbe creare contesti istituzionali distinti. Una distinzione basata sui fatti e non sulle teorie. Nei fatti, la distinzione principale è tra chi vuole partecipare solamente al mercato unico e chi partecipa invece anche ai programmi integrativi più avanzati (come quello dell’area dell’euro con i relativi trattati intergovernativi e quello dell’area di Schengen). Se si considerano i Paesi che partecipano a questi due programmi (19 nel primo, 22 nel secondo), si vedrà che vi è però un gruppo di 18 Paesi che sono presenti in entrambi. Questo gruppo è già il nucleo di un’unione politica, dotata di un embrione di istituzioni distinte (come l’Euro Summit e l’Eurogruppo). Invece di delineare scenari confusi, occorrerebbe costruire su ciò che c’è già, dando a quel nucleo un assetto istituzionale compiuto, così da consentire ai cittadini di influenzare le decisioni che vengono prese. Perché, in democrazia, le politiche si legittimano non solo per i loro esiti, ma anche per come sono decise (una preoccupazione estranea invece alla tecnocrazia). La seconda gabbia mentale che tiene prigioniera la Commissione è costituita dalla voluta vaghezza del progetto d’integrazione. Invece di stabilire ciò che l’Ue deve fare, la Commissione discute di scenari futuri come se non ci fossero limiti o restrizioni alle competenze che un’unione può assumere. La Commissione ritiene che il processo di integrazione abbia un esito sempre aperto, sempre in evoluzione, sempre indefinito. Ma non deve essere così, perché ciò crea una tensione strutturale tra l’Unione e gli Stati nazionali. Occorre invece rovesciare la prospettiva, stabilendo le basilari politiche che deve fare l’Unione, lasciando tutte le altre agli Stati membri. Il futuro dell’Europa risiede nel creare un’unione sovrana (in alcune politiche) diStati sovrani (in altre politiche). È qui che la voce dell’Italia dovrebbe farsi sentire, proponendo una nuova prospettiva e nuovi contenuti per il progetto unionista.

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