Milano, 6 marzo 2016 - 22:26

L’Europa e le frontiere chiuse:
al vertice la sospensione di Schengen

In discussione la fine dello spazio aperto, almeno temporaneo (con il calendario per riattivarlo). Ma tornare ai vecchi confini costerà alla Ue 10 miliardi all’anno

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Si chiama «Back to Schengen», ritorno a Schengen, il documento con il quale Jean-Claude Juncker si presenterà oggi all’ennesimo Consiglio europeo sull’emergenza rifugiati. Già dal titolo la proposta del presidente della Commissione Ue presuppone che l’accordo di libera circolazione delle persone in Europa sia nei fatti già saltato: poco importa che formalmente lo abbiano «sospeso» solo da sei dei 26 Paesi aderenti. La Commissione, questa volta pienamente in sintonia con l’Italia, guarda oltre. L’obiettivo è pilotare i leader europei verso un percorso a tappe per poter riattivare la libertà di circolazione in Europa già da dicembre. Se suona come un’ambizione timida, non lo è a confronto con il recente passato. Fino a poche settimane fa, quando vari governi del centro-nord accarezzavano l’idea di liberarsi del problema escludendo la Grecia da Schengen e lasciandola da sola a gestire i siriani, a Bruxelles non si escludeva una sospensione biennale. Già oggi Paesi posti su snodi nevralgici come Austria, Svezia, Danimarca o Ungheria hanno formalmente congelato gli accordi; Stati fondatori dell’Unione come Francia, Germania e Belgio hanno riattivato i controlli ai passaggi di frontiera e per almeno nove dei 26 firmatari Schengen è di fatto in archivio.

Il piano

Se il piano della Commissione Ue non riesce arrestare lo sgretolamento di Schengen, si conteranno i costi per le imprese e l’occupazione. Le stime di Bruxelles, così come quelle della Fondazione Bertelsmann e del centro studi del governo francese, indicano che il ritorno alle vecchie frontiere del ‘900 comporterebbe per l’area euro una perdita di reddito di circa dieci miliardi l’anno. Separata dai suoi passi alpini, per l’Italia e il suo export il danno rischia di essere pesante se i tempi per ogni camion si allungano sulle file ai confini e le catene di fornitura con la Germania si allungano. Ma neanche la proposta di Juncker basta da sola a risolvere il problema più intrattabile, quello degli sbarchi in Grecia. Oggi a Bruxelles i leader europei, con il premier di Ankara Ahmet Davutoğlu, discuteranno soprattutto come far sì che la Turchia trattenga, o riprenda, i migranti non siriani che non hanno diritto all’asilo politico. Ma per la Grecia già inondata di rifugiati non sarà una soluzione. L’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu calcola che in gennaio e in febbraio le persone sbarcate dalla Turchia alle isole elleniche sono state ventisette volte più numerose rispetto agli stessi mesi del 2015. Ne sono arrivate 123 mila contro le 4.400 di un anno fa. In marzo ne stanno arrivando 1.400 al giorno.

L’accordo

Un’ondata di questa intensità fa pensare che l’accordo di oggi con la Turchia non allenterà la pressione sulla Grecia. Non se gli afflussi restano così intensi o aumentano con la stagione calda: secondo l’alto commissariato Onu, circa metà dei nuovi migranti sono siriani, dunque difficilmente il governo dell’Ankara accetterà di riprenderli indietro in numero sufficiente. Ancor più difficilmente questi rifugiati riusciranno però a districarsi dalla Grecia così come erano riusciti a fare coloro che li hanno preceduti l’anno scorso. «La rotta balcanica ora è chiusa», sottolinea a questo proposito la bozza di conclusioni del vertice europeo che discuteranno oggi a Bruxelles i 28 leader dell’Unione. Ciò significa che dalla Macedonia, dalla Serbia e dalla Croazia non si passa più per raggiungere la Germania e la Scandinavia. Quanto all’Albania, che ha un lungo confine con la Grecia e da cui si può arrivare rapidamente in Puglia, la delegazione italiana oggi a Bruxelles insisterà perché venga sostenuta con forza.

La bozza

Il vertice di oggi ricorderà anche che la Nato resta impegnata nel Mar Egeo nella lotta ai trafficanti. Non mancherà senz’altro di aggiungere, secondo la bozza di conclusioni, che «sarà a fianco della Grecia e farà tutto il possibile per aiutarla». Ma le parole non bastano a cambiare i fatti sul terreno. Il governo di Atene non riesce ancora a concordare con i creditori dell’Ue e del Fondo monetario sui pesanti tagli alle pensioni richiesti, a luglio prossimo rischia di nuovo il default se non di sbloccheranno i finanziamenti, e nel frattempo rischia di traboccare di rifugiati. Dopotutto, il piano di tagliar fuori la Grecia non sembra poi così accantonato come si dice.

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