Una coincidenza è una spiegazione mancante. I due attentati di ieri, in Costa d’Avorio e in Turchia, sono quasi sicuramente opera di terroristi non in contatto fra loro e senza alcun coordinamento ideologico o operativo. Non sono tuttavia una coincidenza. La spiegazione, drammaticamente semplice, è che stiamo perdendo la guerra contro il terrorismo. I terroristi ne approfittano perché sanno che per continuare a vincere - a guadagnar terreno - basta esattamente quello che hanno fatto ieri. Colpire, fare vittime, seminare paura, in un angolo o l’altro del pianeta. Che noi vogliamo o meno chiamarla guerra importa poco. Chi la conduce, in particolare lo Stato Islamico, Al Qaeda, Boko Haram, Shabaab, taleban, ha pochi dubbi sul dichiararla e condurla spietatamente. Ammanta di religione la barbarie e approfitta di qualsiasi bersaglio o punto debole a disposizione. Ogni bersaglio è legittimo.

Più di un migliaio di chilometri separa Ankara da Grand-Bassam, un abisso psicologico le vittime di ieri nella capitale turca da quelle nel villaggio vacanze in Costa d’Avorio.

Il filo diretto è la stretta del terrorismo sulla scena internazionale. Per diversa che sia l’etichetta che ha armato i Kalashnikov e le bombe, i due attentati rispondono ad una logica unica.

Una logica che sta destabilizzando il mondo soprattutto intono a noi. Non facciamoci illusioni perché non ne siamo al riparo né in Italia né in Europa. Anche senza tirare in ballo le tragedie di Parigi dello scorso anno, e la caccia al terrorista nei quartieri di Bruxelles, siamo di fronte ad una minaccia crescente e continua alla nostra quotidianità dai viaggi agli affari, dalla cultura al turismo. Non siamo al riparo dalla guerra del terrorismo perché, come Europa ne siamo circondati. La stiamo perdendo perché, malgrado tutti i nostri sforzi, malgrado le forti dichiarazioni di solidarietà, 15 anni dopo l’11 settembre e le code di Londra e Madrid, lo scenario di sicurezza intorno a noi è peggiorato anziché migliorare. Siamo sulla difensiva mentre abbiamo permesso al nemico d’insediarsi in Siria, in Iraq, in Libia e nel Maghreb: intorno all’Europa.

Continuiamo a dire che la sfida dello Stato Islamico non ha soluzioni militari. Vero, ma intanto lo Stato Islamico ci aggredisce con le armi, per di più senza alcun scrupolo nell’usarle contro civili. Anzi, più civili colpisce, maggiore è il successo. Non verremo mai a capo di questa minaccia se non uniremo a un forte impegno diplomatico e politico anche lo strumento militare con più determinazione e coraggio di quanto abbiamo fatto finora. Sappiamo «dov’è» Isis. Conosciamo la sua capitale in Siria, le città dove esercita il suo barbaro potere con violazioni orrende dei diritti umani, conosciamo le basi sul litorale libico.

Sono vulnerabili ai mezzi di cui disponiamo, ma esitiamo ad usarli o li centelliniamo. I due attentati di ieri sono lontani dall’Italia e dall’Europa. Possiamo continuare ad illuderci che la distanza basti a darci una certa sicurezza. Rinunceremo a qualche viaggio e cancelleremo i villaggi turistici in località esotiche. Ma non illudiamoci: così facendo il terrorismo continuerà ad avanzare mentre noi, l’Europa, il mondo civile, battiamo in ritirata.