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Corriere della Sera - 02 settembre 2018 - pagina 1
Per cosa voteremo

L’europa e le urne del destino

di Franco Venturini

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S ta emergendo con molto anticipo sulle elezioni europee di maggio, ed è un bene che sia così, il vero oggetto del contendere tra l’internazionale dei «sovranisti» e coloro che la temono: la vita o la morte dell’Europa.

In Italia come in altri Paesi dell’Unione un trasversale partito europeista punta a riformare la Ue dall’interno, senza buttare il bambino con l’acqua sporca. I nazional-populisti vogliono invece espugnare la stanza dei bottoni di Bruxelles sull’onda di un crescente consenso popolare, ma non dicono come sarebbe la loro «nuova Europa» ed eludono così l’evidente impossibilità di conciliarla con spinte di nazionalismo radicale. La sfida è lanciata, e le auspicabili mobilitazioni elettorali di fine maggio ne decideranno l’esito perché il Parlamento uscito dalle urne potrà condizionare la composizione della Commissione e disegnare un profilo dell’intera Ue. Se ci sarà.

Sappiamo tutti che all’origine di una contrapposizione tanto netta stanno una montagna di errori e la comprensibile reazione delle opinioni pubbliche. Errori clamorosi dell’Europa, che non è riuscita (anche grazie a Orbán, il miglior amico di Salvini) a gestire in maniera equa l’impatto delle spinte migratorie. Errori di un centrosinistra politico che ovunque sembra aver perso il contatto con le inquietudini sociali.

I nquietudini esaltate dalle difficoltà economiche, dalle aspirazioni identitarie frustrate dalla globalizzazione, e dalla paura dell’ormai prossima era dell’intelligenza artificiale. Le cause di un disagio diffuso e in crescita, insomma, non sono misteriose e non possono essere ignorate. Ma se è doveroso guardare in faccia la realtà, esiste anche il dovere di trasmettere agli elettori che vorranno prenderne nota la storica importanza dell’appuntamento elettorale di maggio.

E’ del tutto illusorio credere che l’Europa possa diventare il contrario di se stessa, sostituendo lo scontro tra nazionalismi radicali, già oggi ben visibile, a un cammino certo insoddisfacente di integrazione settoriale e di cooperazione intergovernativa. Rovesciare il tavolo come i sovranisti vogliono fare, assumere il controllo del Parlamento dissolvendo tutti i gruppi oggi presenti e puntando alla maggioranza attraverso alleanze inedite pronte a condizionare l’intera Europa, non segnerebbe la nascita di una credibile nuova Unione erede di quella che ci ha dato settant’anni di pace e convenienti dimensioni economiche. Decreterebbe piuttosto la morte della «vecchia» Europa, accompagnandola con un salto nel buio che non a tutti, fuori dall’Unione odierna, dispiacerebbe.

Nell’attuale disordine mondiale l’effettiva scomparsa dell’Europa infliggerebbe agli assetti geopolitici, strategici e commerciali un colpo gravido di conseguenze. Tra l’altro ne uscirebbero rafforzate le correnti migratorie, e l’Italia sarebbe sempre più sola in mezzo al Mar Mediterraneo perché tutti gli altri alzerebbero, come fanno già i citati «amici» del Gruppo di Visegrád, fortezze terrestri sempre più impenetrabili. Non ci sarebbe nemmeno più contro chi protestare. Non servirebbe nemmeno più, se non presso l’elettorato nazionale, levare alte grida contro una «invasione» che le statistiche indicano in fortissimo calo.

La partita è già truccata. E tuttavia sappiamo bene che indicare la vera posta in gioco o denunciare la disonestà delle tattiche propagandistiche nulla toglie alla legittimità del voto democratico. Per questo l’esito dello scontro è incerto. Per questo dobbiamo prepararci a una campagna elettorale molto diversa da quelle che abbiamo visto, distrattamente, dal ’79 a oggi. E per questo anche i potenti aguzzano la vista, c’è chi si propone come federatore dei sovranisti duri e puri e chi osserva i nostri tormenti fregandosi le mani. Il primo, per interposta persona, è a Washington. Il secondo, mai pago dei regali che riceve, è a Mosca.

Non occorre tornare a soffermarsi sui contrasti sorti tra Europa e Casa Bianca da quando ad abitarla è Donald Trump. Basterà ricordare come Trump consideri addirittura «nemica» l’Europa in campo economico-commerciale, come la coinvolga nelle sue politiche sanzionatorie e come manifesti una marcata preferenza per i rapporti soltanto bilaterali. Non sorprende più di tanto, allora, che Steve Bannon, l’ex ideologo di Trump, l’uomo che gli fece vincere la presidenza e ripetutamente accusato di razzismo, antisemitismo, odio verso le donne e altre perversioni, si stia occupando intensamente dell’Europa.

Interlocutore frequente di Salvini e di Orbán, Bannon si muove su due tavoli. Con una mano dalla sua base di Londra auspica una Brexit senza accordo, la più dannosa possibile. Con l’altra, sul Continente, promuove l’unione operativa tra tutte le forze della destra nazionalista e populista, propone la sponda di un movimento da lui creato, punta esplicitamente alla paralisi totale dell’Europa. Non tutti sono entusiasti delle sue iniziative, ma il messaggio arriva comunque. E va tenuto presente. Tanto più che Vladimir Putin, dal Cremlino, osserva e approva. Dopotutto il primo obbiettivo dell’Urss non era la frantumazione dell’Occidente, e la Russia di oggi non ha ereditato il medesimo interesse?

Se non fosse per il timore di aprire falle troppo larghe nella sicurezza dell’Europa e di sconvolgere l’intero assetto geopolitico da Dover agli Urali, timore di certo non suo, Bannon avrebbe licenza di fare di più. Ma non inganniamoci: a fine maggio la scelta sulla vita o sulla la morte dell’Europa spetterà agli elettori. A noi.

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