19 maggio 2020 - 21:55

La nuova ricostruzione:
i simboli e le regole del gioco

La protesta dei sovranisti il 2 giugno contro l’Unione, mentre questa trasferisce risorse da uno Stato a un altro, risulterebbe difficilmente comprensibile

di Antonio Polito

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La nuova ricostruzione:  i simboli e le regole del gioco
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Scegliendo il 2 giugno come data per mettere fine al lockdown della piazza, Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano certamente consapevoli del valore simbolico della data. Oltre a essere il primo «ponte» dopo la clausura, il 2 giugno è infatti anche l’anniversario del referendum popolare che fece nascere la Repubblica e dell’elezione della prima assemblea democratica dopo il Ventennio fascista. L’atto fondatore, dunque, delle radici comuni della cittadinanza italiana, ciò che oggi ci unisce più di ogni altra cosa: siamo tutti repubblicani, siamo tutti democratici.

Voltare pagina fu il compito del referendum, preceduto e seguito da governi di unità nazionale in cui sedevano insieme i partiti che si sarebbero presto divisi per diventare nemici giurati, avversari «di sistema». Alle prese con la ricostruzione post-bellica, essi agirono come dietro un «velo di ignoranza»: nessuno sapeva chi avrebbe vinto le successive elezioni, dunque si misero d’accordo sulle regole comuni, la Repubblica e la Costituzione, rinviando il momento della competizione tra le fazioni. Fecero una scommessa sul bene del Paese, sperando di incassarne un giorno la posta.

È un’analogia che dovrebbe far riflettere l’opposizione. Oggi il suo ruolo, in attesa delle elezioni che verranno e dinanzi a un Paese in ginocchio, deve essere quello di «governare» già da subito, con capacità di proposta e pretesa di ascolto, e non siamo certi che la protesta sia il modo migliore per farsi sentire da chi governa; il quale, da sempre, usa il pretesto della partigianeria altrui per poter gestire in esclusiva gli affari pubblici.

Ma c’è un altro motivo di riflessione, più recente e più importante, da considerare. Ed è il cambiamento della situazione geopolitica in cui potrebbe avvenire la «ricostruzione» italiana se la proposta Merkel-Macron avrà successo. È meglio non lasciarsi sedurre dai paragoni con il Piano Marshall, la scelta che gli Usa fecero all’indomani della guerra dopo una certa esitazione, salvando l’economia europea e portando l’Europa occidentale stabilmente sotto l’egemonia americana. Dimensioni e condizioni di quell’intervento finanziario, che tra l’altro si chiamava quasi come quello di oggi, European Recovery Program, furono troppo differenti. Ma certo è che quella scelta strategica della potenza americana, aiutare gli europei per aiutare se stessa, cambiò radicalmente le regole del gioco politico in Italia. I democristiani ne diventarono gli alfieri, e governarono per 45 anni; i comunisti ne diventarono gli avversari, e finirono all’opposizione per 45 anni.

I leader del centrodestra di oggi, Salvini e Meloni in particolare, visto che Berlusconi sembra esserne più consapevole, devono sapere che se l’iniziativa franco-tedesca si realizzerà niente potrà essere come prima. Un’agitazione sovranista contro l’Europa, mentre questa collabora trasferendo per la prima volta risorse da uno Stato un altro, infrangendo ciò che finora è stato un vero e proprio tabù, sarebbe difficilmente comprensibile per la nostra opinione pubblica. Se dalle nebbie della pandemia si stagliasse la figura di un nuovo gigante buono solidale con l’Italia, e questo non fosse la Cina o Putin, come qualche ingenuo esordiente in politica estera sperava, ma l’Europa, chi avrebbe voglia di tirargli le pietre? Anzi: tutti i partiti italiani, comunque collocati, dovrebbero far fronte comune nella difficile negoziazione che si apre adesso con i quattro Paesi europei che resistono alla proposta franco-tedesca, pena l’indebolimento della nostra posizione. La Germania ha titubato, forse si dividerà sulla scelta della Merkel, magari la ridimensionerà; ma ha deciso di sfidare correnti interne forti e contrarie, e di identificare il suo interesse con quello comune di un’Europa unita, retta insieme alla Francia. Comunque finisca, si presenta come un passaggio storico.

Non sto dicendo che i sovranisti rischiano di fare la fine dei comunisti del 1947, anche perché per nostra fortuna imparagonabile è la gravità e la drammaticità dello scontro ideologico di allora. Ma certamente i leader della destra saranno costretti a rivedere dalle fondamenta la strategia stessa del sovranismo, che del resto in tutti i Paesi del mondo, dinanzi a un evento per sua natura globale come è una pandemia, mostra la corda. Si aprirà invece un terreno del tutto nuovo e diverso di lotta politica, sul quale l’iniziativa dell’opposizione potrebbe utilmente perseguire, insieme col proprio, anche l’interesse nazionale.

Il consistente flusso di denaro che in vari modi arriverà in Italia o sotto forma di prestiti a basso tasso o addirittura sotto forma di contributi diretti, non potrà infatti essere speso in bonus e risarcimenti, ma dovrà necessariamente basarsi su precisi progetti e programmi di sviluppo. Il governo si troverà dunque di fronte a un problema del tutto nuovo, perché mentre si sta dimostrando molto creativo nei finanziamenti a pioggia, dal bonus monopattino a quello vacanze, è da vedere se sarà in grado di avere una visione e di superare la cronica incapacità del nostro Stato di spendere efficacemente le risorse di cui dispone. Le vicende delle grandi infrastrutture, al pari di quelle dei fondi europei di coesione, stanno lì a ricordarci quanti miliardi disponibili lasciamo ammuffire da anni nelle casse pubbliche. Ecco un terreno su cui l’opposizione, se ne sarà capace, potrebbe incalzare più proficuamente il governo in carica. Ed ecco anche, però, il terreno su cui il governo stesso si gioca il suo futuro. Perché finita la fase acuta dell’emergenza i cittadini lo giudicheranno sulla capacità di rilanciare l’economia, e oggi non abbiamo né i De Gasperi né gli Einaudi, né i Mattioli né i Mattei del tempo che cominciò il 2 giugno del 1946.

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