4 novembre 2020 - 22:59

L’America che ancora ci sfugge

La mancata sconfessione elettorale di Trump getta piena luce sul peso che ancora oggi ha quella parte degli Stati Uniti di cui si parla di rado

di Ernesto Galli della Loggia

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L'America che ancora ci sfugge Sostenitori di Trump in Carolina (Afp)
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Mentre scrivo tutto è ancora incerto tranne due cose: a) che il voto di cui finora siamo a conoscenza non ha rappresentato quella clamorosa sconfessione popolare del presidente in carica, come molti si aspettavano, ma anzi ha visto in parecchi Stati delle inaspettate buone se non ottime affermazioni di Trump; a dispetto di tutti gli errori, le volgarità e le bugie di cui egli ha costellato la sua presidenza; b) che in ogni caso, come si temeva, Trump stesso farà ricorso ai tribunali. Il presidente potrebbe anche rivolgersi alla Corte Suprema per cercare di invalidare il risultato del voto postale se questo dovesse rivelarsi a lui sfavorevole. Si tratta di due cose diverse come si vede, ma che ci parlano entrambe di due gravi problemi che oggi si pongono per tutti i regimi democratici.

La mancata sconfessione elettorale di Trump (a questo punto si può parlare solo di questo, non di una sua vittoria) getta piena luce sul peso che ancora oggi ha quell’America di cui si parla di rado. L’America profonda dei grandi spazi e delle piccole città, radicata nei suoi antichi pregiudizi, impermeabile a qualunque cosa si muova e si pensi fuori di lei (a cominciare da parte dei vituperati media di orientamento liberal). Convinta soprattutto che la libertà significhi in sostanza una cosa sola: poter fare ciò che si vuole con pochissimi ed essenzialissimi limiti, e che quindi la legge deve immischiarsi nel minor numero possibile di cose. È questa America, con questa sua ideologia somigliante a una sorta di individualismo anarcoide, quella che si riconosce in Trump e che lo vota a dispetto di tutto e anche a costo di mettersi sotto i piedi alcune elementari regole della democrazia. È l’eredità — sembrerebbe incancellabile — della storia di un Paese che si è fatto grazie all’iniziativa spregiudicata dei singoli in una misura altrove sconosciuta e che spesso ha visto il destino della comunità affidato unicamente alla potenza di fuoco delle sue armi.

Dal che si ricava una lezione valida anche per noi tutti, direi. E cioè che la democrazia può funzionare al suo meglio solo laddove esistono cittadini che in larghissima maggioranza condividono una cultura e dei valori con essa compatibili. Sfortunatamente, però, si tratta di una cultura e di valori che di per sé un regime democratico non è in grado, in quanto tale, di generare autonomamente: come dimostra per l’appunto il caso degli Stati Uniti che da oltre due secoli e mezzo sono retti da un sistema di questo tipo e pure si sono ritrovati (e forse domani ancora si ritroveranno) un Trump presidente.

Quanto alla seconda questione — all’eventualità del più che probabile ricorso di Trump alla Corte Suprema allo scopo di far invalidare il voto postale a lui sfavorevole — per valutarne bene il significato non si può guardare solo all’oggi. È necessario considerare il recente passato. Dal quale impariamo che, a cominciare dalla legalizzazione dell’aborto nella celebre sentenza Roe contro Wade del 1973, una parte assai cospicua della regolamentazione in materia di accesso delle donne agli impieghi, di «affirmative action» specie nelle Università, di eguaglianza di trattamento sui luoghi di lavoro , di trasporto degli scolari, di divieto di discriminazione in base agli orientamenti sessuali, e in altre materie analoghe, una parte assai cospicua di tale regolamentazione, dicevo, è derivata non già da una qualche legge votata dal Congresso bensì da sentenze della Corte Suprema o da «ingiunzioni» dei tribunali federali. In altre parole nel recente passato, su alcuni temi chiave per definire l’identità della società americana — temi spesso drammaticamente divisivi —, il punto di vista progressista ha avuto modo di affermarsi non già nelle aule parlamentari grazie al sostegno di una maggioranza di rappresentanti del popolo eletti da una effettiva maggioranza di cittadini, bensì nelle aule dei tribunali grazie a decisioni largamente interpretative da parte delle corti.

È questo un dato di fatto che induce a qualche riflessione. Innanzi tutto questa: coloro che in passato, condividendo un punto di vista progressista, si sono rallegrati delle pronunce di cui sopra da parte della Corte Suprema o delle altre istanze giudiziarie, mi pare che dovrebbero avvertire qualche difficoltà a scandalizzarsi oggi per l’eventuale ricorso all’una e alle altre da parte di Trump. Se si crede infatti che la pronuncia di un tribunale possa costituire l’istanza suprema del processo di validazione democratica dei diritti, allora è giocoforza accettare che questo meccanismo valga anche per la validazione del risultato elettorale, cioè del diritto politico rappresentato dal voto. Sabino Cassese ha ben illustrato ieri quali siano le forti perplessità che suscitano alcuni aspetti della Costituzione degli Stati Uniti anche per ciò che riguarda proprio le regole della composizione della Corte Suprema. Ma quelle regole valevano anche ieri quando essa emanava sentenze di un certo tipo: non dovrebbe essere consentito obiettare oggi solo perché c’è il rischio di sentenze di tipo diverso.

Proprio il ruolo sempre maggiore avuto dal sistema giudiziario americano nell’allargare la sfera dei diritti anche in materie estremamente controverse, bypassando l’istanza elettiva del Congresso, vale infine a spiegare almeno in certa misura il radicalismo di larga parte dell’elettorato trumpiano: in particolare la sua rabbiosa avversione contro le élite, nonché, temo, la sua disponibilità a delegittimare l’odierno risultato elettorale. «Se almeno una parte delle decisioni che per noi più contano — deve aver pensato e pensa quell’elettorato — non passano più per le Camere, allora a che servono le elezioni e tutte le loro regole? E se le élite da cui vengono espressi i magistrati sostengono sempre un punto di vista a noi avverso, allora vadano al diavolo anche quelle élite, la loro presunta neutralità e soprattutto il fair play che quando tocca a noi di scegliere ci obbligherebbe a scegliere persone non troppo schierate». Alla fine, insomma, vada al diavolo la democrazia: questo è il pericolo che può produrre nella mentalità comune un’eccessiva incidenza delle decisioni giudiziarie nella vita collettiva. Tanto più, mi verrebbe da dire, quando i giudici non sono sottoposti ad alcun vaglio di qualsiasi tipo ma si limitano ad aver vinto un concorso all’alba della loro carriera appena usciti dall’Università: proprio come accade in un Paese di mia e di vostra conoscenza.

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