10 marzo 2021 - 21:14

Se la solitudine è storia (e politica)

Da Aristotele ai social network: lo storico Aurelio Musi in un nuovo saggio ne ripercorre l’evoluzione

di Marco Demarco

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Se la solitudine è storia (e politica)
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Siamo soli nella pandemia e nell’infodemia, nell’eccesso di virus e di news. Soli nello stallo delle città, non più in grado di proteggere; e nella crisi della natura, non più consolatrice come ai tempi di Cicerone o Petrarca. Soli di fronte alla potenza degli algoritmi e nel disincanto prodotto dalle ideologie. Soli nel deragliamento dei partiti: e chi, ora, lo è più dei «democrat» che hanno perso, oltre la rotta, anche il segretario? Se queste sono le premesse, sarà difficile non includere nel già lungo elenco di paure pubbliche, benzina per i motori dei populismi, anche quella originata dalla solitudine. Politicizzare la solitudine: il tema è questo, non altro; sebbene vada messo nel conto tutto il carico di ambiguità che sempre comporta una crescente iscrizione della vita nell’ambito dello Stato.

Si è cominciato a parlarne concretamente solo tre anni fa, quando l’allora primo ministro del Regno Unito, Theresa May, per la prima volta al mondo, istituì un ministero ad hoc. Un ministero alla Solitudine (e non più solo alla società civile). Di recente, ha fatto la stessa cosa il Giappone; mentre dalle nostre parti si sa solo di qualche assessorato istituito in via sperimentale. Ma il passo successivo — quello verso un ministero specifico — implica un vasto programma. Per compierlo converrà non farsi prendere dal panico, visto quello che ci dicono i dati. Secondo l’Istat, già prima dei lockdown e dei distanziamenti da dpcm, gli italiani che vivevano soli erano otto milioni e mezzo, di cui il 40% vedovi e il 39% celibi o nubili; il 31,6% di famiglie erano composte da una sola persona; erano tre milioni quelli che dichiaravano di non avere amici, confidenti o punti di riferimento in caso di bisogno; e in molte città, come a Genova, poco meno di quattro appartamenti su dieci erano abitati da una sola persona. Senza contare poi, le notizie sugli hikikomorinostrani, i giovanissimi chiusi in casa per comunicare solo attraverso i social e tutte le altre forme della solitudine contemporanea, a partire dai «neet» e dai «ni-ni» fino agli «incel»: nell’ordine i «not in education, employment or trading», quelli che non studiano, non lavorano e non imparano un mestiere; i giovani che oltre a non fare tutto questo («ni estudia ni trabaja», dicono in Sudamerica) sono il serbatoio di reclutamento per le organizzazioni criminali; e quelli che («involuntary celibate») non riescono a trovare un partner e scaricano sugli altri, con violenza, la loro frustrazione.

Il quadro è questo. E si sa che la solitudine chiama solitudine, mentre a soffrire di più durante le quarantene, paradossalmente, sono stati proprio gli iperconnessi. Come non panicheggiare, allora? Un rimedio c’è. Lo suggerisce un libro appena uscito, «Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network» (Neri pozza), scritto da Aurelio Musi, già preside di Scienze politiche a Salerno e membro della Real Academia de la Historia. Storicizzare. Ecco la soluzione. Studiare il fenomeno nel tempo, coglierne le mutazioni come fanno i virologi col coronavirus, e sentirsi più sollevati constatando che anche gli antichi ne soffrivano, eccome; che in una condizione di solitudine, prima di noi, prima del «welfare state» e della biopolitica, hanno vissuto i marginali, i bambini, le donne, gli esuli, i viandanti, i folli. E prima ancora furono soli Prometeo, Cadmo, Orfeo e Narciso, per volere degli dèi. Mentre dopo, per volere del Capitale, secondo Marx, lo furono gli operai «servi» delle macchine.

Storicizzare vuol dire anche distinguere, e anche questo può aiutare a scomporre il problema e a rendere meno gravoso il peso della solitudine, se è vero che le solitudini non sono tutte uguali. C’è quella depressiva e quella evolutiva. Quella carismatica, ma immaginaria, di don Chisciotte e quella drammaticamente reale, fino all’impazzimento, di Masaniello che ormai in delirio — a quanti fischiano le orecchie? — convocò l’architetto Cosimo Fanzago per ordinargli statue di marmo che lo ritraessero a futura memoria: tante quante erano le piazze di Napoli. C’è la «beata solitudine» elitaria e la «maledetta solitudine» della malinconia. O quella che cambia forma nella stessa persona, come in Jean-Jacques Rousseau, prima serena e poi «cupa e deserta». La solitudine che fa compagnia a Pascal, il quale compatisce chi non sa vivere nel chiuso di una stanza, e quella che offende Diderot, secondo cui solo il selvaggio vive in solitudine.

La solitudine è un prisma, dice Musi. Può presentarsi come «piacevole intervallo tra le cose del mondo e la morte» (Johann George Ritter von Zimmermann), ma anche come «febbrile desiderio di futuro» (Edgar Allan Poe). Come forza autodistruttrice: «Nella solitudine io rodo e divoro me stesso», scrive Leopardi. O come orizzonte di vita (Rilke, Dickinson). Tra tutte le riflessioni sul tema, però, l’autore preferisce quella di Hannah Arendt che identifica la solitudine con il senso di estraniazione, di sradicamento e di superfluità. Tutti aspetti amplificati in una quotidianità di incontri negati e zone rosse. Pertanto, chi — specialmente a sinistra — volesse passare ai fatti, sappia che è già tardi. Era il 20 maggio 1945. Sull’Unità, Cesare Pavese scriveva: «Noi non andremo verso il popolo. Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo».

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