Editoriali

Gli accordi sul grano raggiunti tra Russia e Ucraina e mediati dall’Onu e dalla Turchia rappresentano uno spiraglio di pace o l’ennesimo tassello dello scacchiere di guerra? Sono intese di importanza esistenziale. Oltre 20 milioni di tonnellate di grano bloccate nei porti ucraini, 47 milioni di persone in Africa e Asia che rischiano la fame per il blocco navale russo del Mar Nero. Le conseguenze globali della guerra russo-ucraina, dalla sicurezza alimentare a quella energetica, sono devastanti. È per questo che annunciando l’accordo per le esportazioni dei cereali ucraini, il segretario generale dell’Onu António Guterres lo ha definito un raggio di luce, il primo in quasi sei mesi di guerra. L’accordo, o meglio gli accordi, sono complessi. Prevedono la riapertura dei porti di Odessa, Chornomorsk e Yuzhny; la creazione di un canale sicuro ucraino che permetterebbe ai cargo commerciali di navigare la gimcana di mine nel Mar Nero; un centro di controllo a Istanbul in cui ucraini, russi, turchi e Onu monitorebbero le navi per assicurare che non trasportino armi; e infine l’impegno russo di non attaccare i porti e le imbarcazioni impegnate nell’operazione. Parallelamente, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno chiarito che il quadro sanzionatorio non riguarda le esportazioni di cibo e fertilizzanti russi, essenziali per attenuare la crisi alimentare globale. Non era ancora asciutto l’inchiostro dell’accordo, però, che la Russia ha lanciato quattro missili sul porto di Odessa: due hanno colpito il terminale dell’esportazione del grano. Non è un caso. Le oscillazioni russe tra accuse da fine del mondo e vittimismo, tra narrazioni pompose sulle rosee prospettive dell’economia russa e danni «colossali» delle sanzioni occidentali, tra giustificazioni dell’invasione alla luce della minaccia Nato e ammissione del progetto di restaurazione imperiale, e adesso tra accordi firmati e attacchi armati che rischiano di rendere carta straccia il traguardo faticosamente raggiunto dalla diplomazia, sono elementi che rappresentano l’ormai prevedibile imprevedibilità della strategia del Cremlino. Chiudere gli occhi su questa realtà, nell’illusione che l’accordo sul grano faccia da apripista ad un’intesa di pace più ampia, non è solo ingenuo, ma irresponsabile. Ciò non vuol dire mettere la diplomazia nel cassetto, ma perseguirla con gli occhi ben aperti in una guerra protratta che rischia di durare per anni, e con ritmi e forme diversi.

In un’Italia avvitata in una spirale politica tutta rivolta verso l’interno, il rischio di distogliere lo sguardo dal mondo è enorme. D’altronde, il nostro è un Paese che per decenni ha considerato la politica internazionale un vezzo o un enigma astruso di poca importanza rispetto ai nostri frequenti travagli interni. Non sono servite le guerre in Medio Oriente e in Africa, le ondate di migranti, la crisi climatica e infine neppure la pandemia per aprirci gli occhi sul nesso tra il locale e il globale. L’invasione dell’Ucraina sembrava averci scosso, svegliandoci da un torpore durato decenni. Ma la guerra stanca quando non è vissuta, e l’Ucraina appare lontana per un’Italia catapultata nella crisi politica innescata dalla caduta del governo Draghi e prigioniera di una corsa elettorale appena aperta all’apice di una crisi energetica e alla vigilia di una recessione economica. Eppure, così come l’accordo sul grano ucraino rappresenta al tempo stesso sia uno spiraglio di pace sia l’ennesima mossa di una macabra guerra, il nesso tra la crisi politica interna e il contesto internazionale è evidente. Perché per quanto siano tutte italiane le macchinazioni meschine che hanno portato alla caduta del governo Draghi, sono altrettanto internazionali le ripercussioni che questo potrà avere. Così come non è un caso che la Russia abbia attaccato Odessa all’indomani dell’intesa sul grano, non è probabilmente un caso la caduta di un governo che ha giocato un ruolo chiave nella strategia europea e occidentale in questa guerra, traghettando il nostro Paese alla velocità della luce da una dipendenza energetica dalla Russia pari al 40% a circa il 14. Al tempo stesso, così come l’attacco su Odessa non significa la fine della diplomazia, la caduta del governo Draghi non implica necessariamente lo smarrimento geopolitico dell’Italia. In un caso così come nell’altro serviranno tenacia e competenza, visione e responsabilità. E soprattutto in Italia serviranno occhi ben aperti sul fatto che sicurezza nazionale e internazionale non sono altro che due facce della stessa medaglia.

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