Russia, anche tra i «falchi» il dialogo
non è più considerato un tabù

di Marco Imarisio

Tra i discorsi bellicisti si intravedono anche spiragli sulle trattative. «Quando l’Occidente capirà che è impossibile batterci, potremmo sederci a un tavolo»

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Dal nostro inviato
MOSCA Cominciamo dalla televisione, che ogni tanto aiuta a capire. Durante il suo monologo serale, il celebre conduttore Vladimir Solovyov, nell’esaltare il bombardamento di Kiev ricordando come fa sempre che «la Russia è l’unico Paese al mondo capace di ridurre i suoi nemici in cenere radioattiva», ha lasciato cadere una frase sibillina, rivolgendo lo sguardo verso la telecamera. «Questa svolta nel nostro modo di condurre l’Operazione militare speciale ci darà più forza quando ne avremo bisogno» . I suoi ospiti, che stavano auspicando la ritrovata potenza «dell’unico Paese capace di ridurre in cenere i suoi nemici», hanno reagito con un distratto cenno di assenso.

Erano solo poche parole, per carità. Eppure, in quest’onda di ritrovato orgoglio che avvolge ogni dichiarazione pubblica, spuntano dichiarazioni senz’altro gioiose per la reazione «contro il regime nazista di Kiev», ma con un orizzonte diverso da quello ormai abituale della vittoria sul campo. Prendiamo Sergey Lipovoj, presidente dell’organizzazione «Ufficiali della Russia», che conta centinaia di migliaia di iscritti: «Secondo un nostro antico detto, i russi mettono le briglie con lentezza per correre poi più veloce. La distruzione degli obiettivi chiave delle infrastrutture militari e civili farà cambiare il modo in cui i protettori del regime di Kiev parleranno con noi quando verrà il momento».

È una allusione continua, un riferimento a qualcosa che potrebbe succedere ma che ancora non è consentito nominare. Nello scorso maggio Franz Klintsevich, ex generale e senatore, membro del Consiglio superiore di Russia Unita nonché leader dell’Associazione dei veterani della guerra in Afghanistan, venne messo in punizione dai talk show per avere sostenuto in diretta che l’esercito ucraino era forte e ben preparato. Ieri ha esaltato la svolta, legandola anche lui a eventi futuri. «A Kiev capiscono solo la forza. Il cambiamento di approccio è una scelta obbligata per avere maggior peso quando le armi taceranno».

Gli ultranazionalisti che danno la linea, da Dmitry Medvedev a Ramzan Kadyrov per citare i più noti, non ne fanno cenno. Avanti tutta, contro l’intero mondo occidentale. La linea ufficiale rimane questa. Ma negli ambienti della politica moscovita che si muovono a cerchi concentrici intorno al Cremlino sperando di interpretarne le mosse, è forte la convinzione che Vladimir Putin stia invece cercando una via d’uscita, nonostante mosse difficilmente spiegabili se non con la volontà di compiacere il partito della guerra totale che lo sta pressando da vicino. Leggere per credere l’analisi dell’analista Eugeniy Yashuk, apparsa sul sito Regnum, uno dei capisaldi del patriottismo russo, che seppure in un tripudio bellicista, ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. «La portata dei colpi sferrati il dieci ottobre sulle infrastrutture di Kiev non serve solo a restituire emozioni positive tra la nostra gente. La Russia ora ha bisogno di una urgente tregua. Da un lato l’Occidente parlerà di catastrofe umanitaria, dall’altro sosterrà un congelamento del conflitto, tanto per iniziare. Per la vittoria della lobby “dell’accordo di pace” ci vuole una reale minaccia, anche nucleare. Dopo averla soppesata, gli Usa saranno pronti a una ricomposizione pacifica, senza mettere in stato di allerta le proprie forze strategiche». Sono solo spiragli, la cui luce eventuale è comunque difficile da sopportare. Perché sempre, in ogni caso, comportano la negazione di qualunque ruolo a chi sta soffrendo di più, Stato vassallo con il quale non vale la pena di parlare, ridotto a mera entità geografica.

Konstantin Blokhin, del Centro ricerche sulla sicurezza nazionale dell’Accademia delle Scienze di Russia, poco distante dal Cremlino e non solo per la sua collocazione geografica, arriva a definire Kiev come un «regime ucrofascista», secondo una definizione cara all’ideologo della destra estrema Aleksandr Dugin. «Guardate quello che sta succedendo. Nelle élite americane c’è una spaccatura sui rapporti con Zelensky e i suoi apparati. Erdogan ha proposto di discutere il suo futuro senza la partecipazione di Kiev. Per far esacerbare queste divisioni, occorre privare l’Occidente della certezza che sia possibile ottenere una vittoria sulla Russia. Dopo, sarà possibile trattare con chi di dovere, da pari a pari». La macchina della propaganda e alcuni pezzi della nomenklatura russa stanno preparando il terreno. Prima o poi, ci si dovrà pur fermare. E aprire un vero negoziato. Per ora si vagheggia di farlo senza l’Ucraina. Ma le certezze granitiche sembrano ormai un ricordo.

12 ottobre 2022 (modifica il 12 ottobre 2022 | 09:50)